UNDER 16 BIANCA: L'INNO DI COACH ZAVAGNI

UNDER 16 BIANCA: L'INNO DI COACH ZAVAGNI

10/12/2015

UNDER 16 BIANCA: L'INNO DI COACH ZAVAGNI

Dedicato a chi è debole di cuore, a chi dalle ore 15.30 era a casa a predere una cioccolata calda (con o senza panna è relativo), a chi pensa che le femmine sono un surrogato dei maschi.
Oggi nella palestra dell’Allotreb la U16F Bianca ha trovato una vittoria che ripaga le tante ore in palestra a imprecare contro i santi, i cervelli inceppati e i palloni quadrati. Per i deboli di cuore il peccato è che se avesserp fatto uno sforzo sovrumano nell’accettare il moltiplicarsi dei battiti del cuore e fossero scesi sotto casa avrebbero sicuramente risolto il problema cardiaco che li attanaglia: in un modo o nell’altro. Per chi si stava sorseggiano il liquido ristoratore e portatore di acne psoriasica il rimpianto più grande che avranno nelle loro dolci esistenze è il non essersi sintonizzati sulle cordinate del Volley San Paolo dove il cioccolato non porta effetti collaterali accennati prima, ma fa anche digerire bevande più energetiche e più apprezzate nelle peggiori locande della barriera di milano. E chi invece ha nel cranio impoverito la convinzione della futilità dell’altra parte della luna, lo vorrei rinchiudere dentro una stanza armato di tutto punto con le dodici leonesse della fantasmagorica partita di oggi: le armi non si troveranno nel posto giusto ma nascoste chissà dove anche se la stanza è vuota.   
Bando alle ciance qui si è fatta la storia; una storia di altri tempi, di tempi in cui la pallavolo si faceva per amore dello sport, si faceva sorridendo perché la vita era entrata nella pallavolo. Ripeto, queste leonesse non diventeranno famose giocatrici di serie A ma il cammino che stanno facendo, con qualche santo che interviene in loro difesa, con qualche cervello che interrompe la caduta libera verso l’ignoto cosmico e i palloni un po’ più ovali, è un cammino verso l’introiezione profetica che sono proprio loro quelle che sono in palestra e che lo sport che hanno scelto è la pallavolo. 
Non è un particolare di poco conto. Molte sono convinte che con un tocco del pallone il compito è finito: si può andare a casa, un’altra vorrebbe fare lei i tre tocchi andare dall’altra parte della rete e difendere il pallone schiacciato, andare sul seggiolone e fischiare il fallo di invasione della centrale lungagnona, altre che scoprono che dall’altra parte della rete c'è un mondo tutto da scoprire e non vedono l’ora di andarlo a trovare… Tutti questi limiti sono scomparsi e dalle ceneri di quelle vesti ignote sono nate delle giocatrici di pallavolo. Con una volontà femminile giusta e una forza maschile necessaria. E’ questo che è si mescolato intorno a loro: con i tocchi delicati delle palleggiatrici, due giocatrici così diverse, così uguali: il maschile e il feminile mischiate insieme; la nostra “adrenalina” che anche con un pubblico avversario partecipe, come ad un matrimonio siculo-calabrese, ha mantenuto il mediatore chimico sotto livelli di guardia; la cerbiatta lungagnona che con tanto amor patrio da accettare, con triste e partecipato stridere di ugole, la panchina non meritata ma opportuna per la contingenza della partita: i tocchi ci sono ma il femminile prevale troppo e l’esuberanza maschile ne risente; la Patty dai capelli rossi scalpitante che mi tranquillizza più per il suo sospiro nelle attese del gioco che per il suo balzo atletico verso l’infinito (infinito perché non sa nemmeno lei dove la potrà portare) ha indirizzato i dardi furiosi in luoghi che neanche la avversarie si sopponeva sapessero; la celebre comare dai palloni imbiancati che con devota decisione manda coriandoli esplosivi nel campo profugo,ormai ridotto a colabrodo, e che con un sorriso da educanda impenitente ha messo le mani ad un ipotetico muro, finalmente si è fatta sentire anche in difesa  anche se nessuno se ne accorge; la semi vispa teresa che tra margherite colte nei campi alpini tra mucche stranite e buse mancate si ricorda che l’ovale va coltito e le colpisce pure bene (il pallone è proprio ovale!); la struggente e silenziosa perla dell’ultima nidiata giovanile non è rimasta a guardare i treni passare ma ha buttato in campo la sua dedizione alla causa e le sue compagne lo hanno sentito come soffio di brezza in un giorno di afa, come una carezza in un giorno di lune nere, come un bacio che si da al primo amore (fate però attenzione se passate vicino alla ferrovia possono passare siluri non denunciati); il nostro cappuccetto rosso (rosso perché dovete vederla in faccia quando il pallone lo regala ai ragni dell’ultimo mattone della parete della casa di fronte: non è vergogna o timore è proprio acido solforoso puro - capite adesso dove sono finite le armi - ha una grande dote: conosce il latino e l’italiano volgare (più volgare che latino) e la egola benedettina: “ora et labora”. Della prima mi astengo, non si sa mai se ci azzecco, la seconda è proprio la sua regola: si vede che progredisce nel ricevere, ma ha troppi tempi morti, che non sa tradurre in latino ma nell’italiano volgare si. 
E’ stata una battaglia simile alla partita d’andata (andatevela a leggere) ma in compenso la bravura è stata nostra. Duello portato avanti in parità fino ed oltre metà di ogni set poi l’animo della squadra è uscita. Questo spiritello danzante che ha ispirato tutte le nostre azioni ed ha fatto annebbiare la vista al tecnico avversario che non sapeva più che cosa fosse successo alle nostre vergulte. Ma siccome l’animo è forte ma la carne è debole eccole qui le nostre balzanti spiritelle che si bloccano o a guardare un principe azzurro (più che altro per vedere come è fatta quella tuta azzurra) o si sono accorte che siamo vicini a natale e non sanno che regali fare; e incominciano a farne a iosa (anche il passante sul marciapiede ringrazia) fino a quando il benedetto punto arriva. A quel punto tutti gli astanti si liberano, me compreso, della flebo ormai agli sgoccioli. A quel punto non serviva sapere come stavano i battiti del cuore del malato di cuore: ormai è andato; al cranio impoverito gli stanno ritrovando le armi ad una ad una…
non mi resta che chiedere: la cioccolata era buona?