Scriveva Platone: “Se uno, con la parte migliore del suo occhio guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso”
Quanti auguri si possono fare per essere creduti sinceri verso il bene che vogliamo donare al nostro prossimo. Quanti regali abbiamo fatto per essere considerati meritevoli di attenzione considerando il regalo come un’espressione di valorizzazione verso l’altro.
Noi seguiamo la vita che ci disillude e non ci fa sentire pienamente sinceri.
Come nell’amicizia dove è impossibile coniugare interessi privati con il vero bene al prossimo. Prima dobbiamo considerare il nostro prossimo non così lontano – li abbiamo già qui – sbarcati da chissà quale speranza e ributtati nel mare della nostra paura e indifferenza (che genera le peggiori reazioni anti-umane che l’uomo può generare dettate dall’ignoranza). Ma il nostro prossimo lo vediamo anche tutti i giorni con la rabbia della vita che conduciamo quotidianamente e più diventiamo massa più diventa difficile rapportarci con sincera amicizia.
Nel nostro intimo dobbiamo superare prima di tutto gli ostacoli causati dalla nostra solitudine che ci incolla davanti ad un computer vittime di una bulimia affettiva o nel cercare non tanto gli amici quanto riconoscimenti della propria identità che non sappiamo dove reperire o per applaudire parole che confermano le idee che già abbiamo. Molte volte adoperiamo l’amicizia per avere delle conoscenze utili per degli scambi di favore, o per avere delle relazioni un po ipocrite e un po convenzionali nella speranza che un giorno possano tornare vantaggiose. Noi viviamo in questa società o esaltando il nostro egoismo o considerandoci massa.
Quando consideriamo la nostra unicità incontriamo solo la nostra solitudine dell’anima che naviga sognando mondi e ideali che saranno mai rivelati al mondo e si nasconde tra i mille dolori che la nostra buona educazione ci induce a non manifestare o che si esalta in entusiasmi che sfuggono ad ogni misura e moderazione. Noi ci teniamo dentro quello che in pubblico verrebbe giudicato come stranezza o follia. Anche se è proprio questa follia a darci vita, senso e spessore.
Quando siamo nella globalità dei rapporti dobbiamo dare prova di sano realismo che ci chiede di stare ai fatti, di controllare le emozioni, di misurare le parole, di essere come gli altri ci vogliono che essere propriamente se stessi. E tutto questo per essere accettati, riconosciuti e persino applauditi.
Ma l’amicizia non è nel singolare né nel plurale perché conosce solo il discorso a due, carico di quella modalità linguistica che solo gli innamorati conoscono nel loro breve periodo in cui non riescono a concepire se stessi senza l’altro.
Tra l’anonimato del pubblico e la solitudine del privato, l’amicizia consente di capire le nostre parti nascoste che nel segreto dell’anima noi ci creiamo. I nostri pensieri intimi che in pubblico potrebbero apparire come segni di follia, nell’ascolto accogliente dell’amicizia possono essere svelate invece di restare soffocate e inespresse, svelando la nostra intima verità.
Per questo non si possono avere molti amici ma solo quei pochissimi che corrispondono alle sfaccettature della nostra anima a cui svelare il nostro segreto che l’altro gelosamente custodisce. Non per confidarci o cercare consenso ma per vedere che cosa nella comunicazione a due il segreto ha da svelarci. Silenziosamente, a poco a poco, incontro dopo incontro. Perché così chiede il ritmo dell’anima, che vuole esprimere e nello steso tempo custodire, per non annullare i pensieri reciproci e nello stesso tempo non disperderli nel rumore del mondo.
Se questa è l’amicizia, la nostra cultura, che conosce solo l’anonimato del pubblico e la solitudine del privato, non è la più idonea a favorire questo incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso, e che lo sguardo accogliente dell’amico potrebbe incominciare a raccontare e a delinearne i contorni. Perché in fondo è la scoperta di noi quello che l’amicizia favorisce e propizia.